L’idea di Tulpamancer è brillante. Si entra in una piccola stanza al cui interno sono posizionati un piccolo computer degli anni ottanta e una sedia. Il computer si presenta: è Tulpa, un’IA digitale in grado di ricostruire sogni e memorie. Si viene quindi invitati a rispondere a una manciata di domande: com’era la tua stanza da bambino, il momento più felice della tua vita, la tua aspirazione. Dopo dieci minuti un telefono squilla, ci si sposta in un’altra stanza, si indossa un visore per realtà virtuale e si assiste a un’interpretazione di Tulpa di tutta la nostra vita, e di quello che ci aspetta.
È un concept effettivamente affascinante, che attraverso la strada inedita delle intelligenze artificiali applicate poteva restituirmi grandi soddisfazioni. Purtroppo così non è stato, o quasi.
L’IA, oggi, è ancora indietro, soprattutto rispetto alla rappresentazione visiva di ciò che gli descriviamo. Riesce molto bene a replicare formule che conosce, ma quando deve partire da zero, senza bagagli di memoria di alcun tipo, la situazione è molto diversa. Vien da sé che la grande stanza con due letti, una grande finestra e un tavolo pieno di videogiochi che gli ho descritto, Tulpa l’ha rappresentata come una stanza ottocentesca con due sedie, molti libri e nessuna finestra, benché meno videogiochi. Forse avrei potuto descrivergli meglio alcuni elementi, ma mi è risultato tutto molto diverso da come l’ho descritto, se non qualche piccola sfumatura in momenti avanzati dell’esperienza. Quando gli ho parlato di Los Angeles è infatti riuscita a restituirmi delle simil-vibes della nota città americana, e quando gli ho parlato di un cinema mi ha circondato di piccole sedie rosse di velluto, esattamente come quelle delle sale cinematografiche d’altri tempi.
Non benissimo, quindi, sul fronte puramente visivo: l’idea è buona, ma ha ancora bisogno di molto tempo per essere perfezionata. Meglio, invece, il racconto con voce fuori campo che va ad accompagnare le immagini. Sebbene vada a pescare molte frasi paro paro rispetto a come gli sono state dette, alcune variazioni e alcuni dettagli mi hanno stupito decisamente in positivo. Anche qui, si sente che alla base c’è un’IA, che per sua stessa natura manca di personalità, e di un qualsiasi elemento emotivo in grado di stupire all’infuori del semplice traguardo tecnico, ma il discorso fila, funziona, ed è in grado di trasportare chi ne fruisce verso luoghi soltanto immaginati.
Un paio di conoscenti che hanno fatto la stessa esperienza prima di me giurano che la loro ricostruzione fosse discretamente accurata, altri hanno invece riscontrato le mie stesse criticità, ed è quindi un po’ un terno al lotto riuscire a educare la macchina per ricevere indietro il miglior “prodotto” possibile. Resta il fatto che l’opera di Marc Da Costa e Matthew Niederhauser è comunque interessante, avveniristica e potenzialmente sorprendente. Se solo funzionasse un po’ meglio.
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