In un lontano futuro, i giovani di una società tribale devono affrontare un rito di passaggio per entrare nell’età adulta: tuffarsi dalla rupe più alta del villaggio e immergersi nell’oceano alla ricerca di una sacra colonia di coralli, che si è sviluppata attorno a un’antica struttura, residuo di una civiltà dimenticata: il monolocale.
Il concetto di Oneroom, termine coreano mutuato dall’inglese che indica appunto un monolocale senza separazione tra camera da letto, cucina e soggiorno, è usato in Oneroom Babel per raccontare un altro rito di passaggio, questa volta contemporaneo: quello dei giovani che “vanno a vivere da soli”, magari trasferendosi per la prima volta in una grande città.
Sono le loro testimonianze – in forma di interviste le cui trascrizioni compaiono sulle pareti coperte di corallo delle stanze che siamo chiamati a esplorare – a guidarci attraverso gli ambienti di Oneroom Babel, e a fornirci una chiave per tracciare dei parallelismi tra l’immaginata società tribale del futuro di cui fa parte il protagonista dell’esperienza e la nostra società contemporanea.
I nostri spazi urbani, cristallizati e resi astratti dalle incrostazioni del corallo (qui reso attraverso una rete di poligoni riflettenti) sono riprodotti tramite grezze scansioni LiDAR, che contribuiscono a rendere a malapena riconoscibili ambienti e oggetti della nostra quotidianità.
L’esperienza, che dura circa quindici minuti, propone un immaginario affascinante, ma non riesce a esplorare in modo troppo soddisfacente il suo tema centrale. È un’analisi antropologica appena accennata, un po’ naif, la cui confezione non riesce a elevarla oltre la semplice curiosità da festival.
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