Quello che ci ha regalato Fumito Ueda nell’ambito del medium videoludico rimane tutt’oggi qualcosa di prezioso ed inarrivabile. Il contributo che ha portato il maestro giapponese all’arte del videogioco ha infatti un valore inestimabile, tanto che attraverso le sue opere risulta estremamente semplice controbattere verso chi crede che il linguaggio in questione sia meno importante di altri suoi colleghi.
Già soltanto vedere alcuni collaboratori storici del Team Ico realizzare insieme un titolo VR mi ha fatto gioire non poco; scopriamo insieme se il risultato è al livello delle grosse aspettative che i nomi si portano dietro.
Last Labyrinth è un’escape room prodotto da AMATA K.K. diretto da Hiromichi Takahashi e doppiato da Stefanie Joosten, ma soprattutto è un videogioco come difficilmente ne vediamo in realtà virtuale, soprattutto per un motivo molto specifico. Il titolo non si presenta come un’esperienza roomscale o particolarmente vicina ai punti forti della VR, ma va consapevolmente in controtendenza rispetto a quello che propone il mercato, poiché ci mette nei panni di un personaggio intrappolato su una sedia a rotelle e con le mani legate. Un controsenso chiaramente voluto e certamente interessante, ma che mostra anche i limiti di un gameplay che fa del ritmo disteso il suo vanto più caratterizzante.
Nei panni di questo curioso personaggio dovremo accompagnare una bambina dai capelli verdi tra le stanze della struttura dentro la quale siamo imprigionati, indicandole semplicemente con un laser posto sulla nostra nuca dove andare e con cosa interagire. Il gameplay ha il sapore di un punta e clicca classico e risulta tutto sommato in linea con l’esperienza proposta; tuttavia la sua natura trial and error lo ingabbia in una routine che alla lunga può dimostrarsi ripetitiva.
La bizzarra struttura narrativa che presenta Last Labyrinth ha invece un’impostazione molto precisa: partiremo da una stanza, sceglieremo la strada, affronteremo un enigma ed arriveremo ad una conclusione.
Questa non è da intendersi come un vero e proprio finale, ma soltanto come un pezzo di un puzzle che inizieremo a comporre solo dopo qualche conclusione di percorso, nonostante lo script non risulti mai particolarmente cristallino.
I collegamenti a Ueda sono evidenti, da uno stile estremamente curato, alla proposizione di un co-protagonista sempre in pericolo, fino alla scelta di far parlare i personaggi una lingua inventata, che non potremo quindi capire se non attraverso i gesti e l’intonazione della voce. Tuttavia l’insieme degli elementi non raggiunge mai i picchi di poesia ed intensità propri di un Ico, anche se il tentativo dimostra chiaramente un gran cuore. La differenza più marcata nell’immaginario sta comunque in un tono che tende all’orrore più psicologico e morboso, presentandoci spesso situazioni inquietanti e suggestive, bilanciate sempre molto bene col gameplay. Se c’è una cosa di cui va dato atto a Last Labyrinth è sicuramente l’esser riusciti a proporre un contesto sempre interessante, nonostante una trama decisamente rarefatta che può nascondere o meno un significato alto.
Se nelle opere sopracitate il punto si fa sempre più chiaro progredendo nel gioco, e viene sempre fuori prevalentemente dal gameplay, qui – evitando spoiler – un punto è molto chiaro, ma non giustifica alcuni mezzi con i quali ci si arriva.
Parlando invece del cuore dell’esperienza, ovvero gli enigmi, il discorso si fa ben più complicato. Se le prime fasi di gioco presentano dei puzzle eleganti e bilanciati, andando avanti con l’avventura assisteremo ad una curva della difficoltà che si farà sempre più ripida, spesso in modo ingiusto.
Il bilanciamento degli enigmi è comunque sempre molto soggettivo, ed è evidente come Amata K.K. abbia lavorato prevalentemente sul gusto del pubblico orientale, inserendo anche stanze basate su giochi e meccanismi tipicamente giapponesi. È infatti emblematico il caso di un enigma che si basa sostanzialmente su una partita di Dobutsu Shogi, una sorta di gioco degli scacchi con regole proprie; intuibili ma difficili da metabolizzare.
Questo non esclude completamente i giocatori occidentali dall’esperienza, e anzi potrebbe essere motivo in più di acquisto da parte degli hardcore gamer del genere, ma rende certamente meno accessibile il biglietto d’ingresso.
Anche sul fronte della longevità la questione risulta spinosa, poiché dipenderà dalla velocità con la quale riuscirete a completare i puzzle e dalla quantità di stanze che avrete voglia di affrontare. Per arrivare al primo dei tre “major endings” ci metterete circa cinque ore; per sbloccare tutti i finali e tutti gli achievement potete arrivare invece tranquillamente ad una quindicina. Tutto dipenderà dal vostro approccio al titolo, da quanto sarà in grado di coinvolgervi e da quanto sarete in grado voi di stargli dietro.
Solidissima poi l’art direction, a metà tra Labyrinth No Kanata, The Last Guardian e la scuola horror più viscerale, che riesce a trasmettere tutta l’inquietudine nascosta nel racconto. Tecnicamente poi siamo su alti livelli, ed il titolo non propone una sbavatura che sia mezza, presentando sempre un’immagine pulita che sorregge con grazia la direzione artistica.
Last Labyrinth è un titolo molto interessante sul fronte dell’impatto estetico ed emotivo, specialmente perché in grado di proporre un tono inedito nel mercato della VR commerciale. Tuttavia l’opera di AMATA K.K. è chiaramente pensata prevalentemente per il mercato di provenienza, e potrebbe così risultare respingente per una larga fetta di pubblico, anche tra chi ha amato le opere a cui chiaramente il titolo si ispira. Inoltre la complessità dei puzzle ed un prezzo davvero fuori mercato potrebbe scoraggiare molti altri curiosi, ma i pochi che decideranno di intraprendere questo folle viaggio difficilmente riusciranno a dimenticarne alcuni momenti, nel bene e nel male.
Last Labyrinth è disponibile dal 12 Novembre 2019 su Steam, Playstation Store ed Oculus Store, compatibile con HTC Vive, Oculus Rift, Oculus Quest, Playstation VR e PS Move.
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