La sensazione che si prova una volta terminato Boneworks è quantomeno bizzarra. Per forza di cose, si arriva alla conclusione affaticati, con le braccia a pezzi ed un curioso miscuglio tra sconfinata ammirazione e brutale frustrazione nei confronti del titolo, di Stress Level Zero, e forse anche del mondo intero. Questo perché l’ultima opera del brillante studio californiano è finalmente un grande passo avanti rispetto a quanto visto fino ad oggi in VR; un passo così ampio che – spesso e volentieri – risulta decisamente più lungo della gamba.
Dopo quel piccolo gioiello di Duck Season che già aveva dimostrato l’enorme talento dei suoi autori, Stress Level Zero torna sulle scene con un’opera terza che riesce ancora una volta ad innovare saccheggiando con rispetto dal passato. Se il loro precedente lavoro plagiava a mani basse Duck Hunt per poi prendere una piega del tutto inaspettata, questa volta siamo decisamente in zona Valve, con dei non troppo velati riferimenti alla saga di Half Life e Portal. Dal primo, Boneworks prende in prestito parte del gameplay ed un certo tipo di setup estetico; dal secondo un utilizzo della fisica decisamente non scontato, volto completamente al servizio dei puzzle.
Nell’immaginario proposto, il mondo di gioco non è altro che una sorta di goffa riproduzione di una società ormai lontana, a metà tra la filosofia di Stanley Parable, i sopracitati classici Valve ed una semplificazione poligonale figlia di Superhot.
Nei panni di un uomo non identificato, dovremo scappare da una serie di scenari abbondantemente diversificati, affrontando un gran numero di nemici e superando una buona varietà di puzzle, per arrivare poi ad un terzo atto delirante in cui le cose si faranno via via più confuse.
Nonostante mi sia sforzato di comprendere il racconto, vi assicuro che risulta davvero difficile trovare un senso logico alla sequela di eventi che andranno a susseguirsi, anche se la lore si presenta ricca di spunti e segreti nascosti. Questo non è necessariamente un male, e anzi aiuta a creare un tono che si aggira dalle parti dell’ultimo David Lynch un po’ svuotato della sua profondità; ma che sa regalare momenti così intensi da rendere praticamente impossibile dimenticarli.
A partire da un tutorial lungo e profondo che aiuta a comprendere le meccaniche di base, la Story Mode si dipana attraverso un’ottima quantità di livelli, tutti rigorosamente separati come fossimo tornati agli anni novanta. Ed è proprio a questa decade che la struttura ludica di Boneworks fa riferimento, innalzandola fieramente a cavallo di battaglia ormai dimenticato e di cui evidentemente si sentiva la mancanza. La pensata anacronistica ma a suo modo geniale è stata proprio quella di mischiare vecchio e nuovo con una grazia rara, buttando i giocatori in scenari che hanno una concezione di level design tipica degli sparatutto di almeno due decadi fa; basati su percorsi al limite del logico, strade alternative zeppe di segreti ed una difficoltà non troppo inclusiva.
Miracolosamente però quasi tutto torna, e funziona proprio perché abbiamo la possibilità di utilizzare la fisica a nostro vantaggio, creandoci i percorsi di cui sentiamo il bisogno con ogni mezzo a nostra disposizione. Se dunque nel primo Half Life avevamo un solo metodo per superare un precipizio, attraversando percorsi ben poco intuitivi, qui potremo risolvere praticamente tutti gli enigmi in molti modi diversi, affidandoci quasi esclusivamente alla nostra sensibilità.
La fisica in questo caso risulta un elemento realmente centrale, ed è capace di stravolgere completamente un gameplay piuttosto convenzionale, regalandoci uno straordinario senso di presenza che si fa sempre più annacquato man mano che accresce la nostra assuefazione da VR.
Uno dei problemi che il motore fisico si porta dietro è tuttavia legato proprio a questo suo elemento innovativo. Avendo optato per la riproduzione del corpo 1:1, non sarà raro incastrare un braccio mentre si sta tentando di aprire una porta, rimanere bloccati durante un salto perché il piede è coperto o perdere degli oggetti perché compenetriamo con una parete.
La questione è drammatica fino ad un certo punto, poiché presto si inizierà a farci l’abitudine, evitando consapevolmente o meno di effettuare certi movimenti, o agendo in modo meno organico nelle situazioni più complicate.
Anche sul fronte dello shooting il titolo regala grandi gioie. Se in un primo momento sembra che i puzzle siano l’elemento cardine del titolo, ben presto faremo la conoscenza dei nemici che popolano il mondo di gioco. Robot umanoidi, headcrab di metallo e simil zombie di vario tipo cercheranno di eliminarci per tutta la durata dell’avventura, ma in nostro soccorso verranno una larghissima varietà di armi da fuoco ed armi improvvisate.
Dal punto di vista delle bocche da fuoco la varietà non manca e rispondono tutte in maniera credibile e soddisfacente, con un sistema immediato ma intelligente di ricarica che rende gli scontri estremamente adrenalinici. Quando si passa invece alle armi bianche o agli oggetti generici utilizzati per difenderci spuntano fuori alcuni problemi sempre legati alla fisica, ma danno anche la possibilità di dar vita ad invenzioni estremamente elaborate che possono regalare enormi soddisfazioni.
Qualche problema invece sul fronte dell’IA, che si dimostra difficilmente reattiva alle diverse situazioni e si limiterà a correrci addosso senza badare troppo alla sua incolumità; o ancora ad incastrarsi dietro a qualche scatola, in attesa di essere eliminata con grande facilità. Scoccia abbastanza, ma a quanto pare è il prezzo da pagare per un titolo del genere sviluppato da uno studio delle dimensioni di Stress Level Zero.
Come già anticipato comunque, il feeling generale è davvero molto vicino all’epopea di Gordon Freeman, con elementi che paiono presi di peso sia dal primo che dal secondo capitolo, coadiuvati però in una miscela del tutto personale, che dimostra una sensibilità – anche visiva – a tratti straordinaria. Non certo un tipo di estetica per tutti i gusti, che rimane sempre minimale ed integralista, ma la direzione artistica non può senza dubbio lasciare indifferenti, e regala finalmente anche ai giocatori VR un immaginario destinato a durare nel tempo. La colonna sonora chiude poi un impacchettamento da manuale, con brani meravigliosi e sempre calzanti che danno vita a quello che è senza dubbio il miglior accompagnamento musicale per un gioco VR dell’anno corrente.
Da segnalare anche la presenza di due modalità aggiuntive alla storia: l’Arena e il Sandbox. In entrambe potrete continuare a sbizzarrirvi con gli oggetti, le armi ed i nemici del gioco, continuando a divertirvi anche una volta conclusa la campagna principale.
Ricordo poi che il titolo regala il meglio di sé con l’utilizzo degli index controller, con cui vengono finalmente tracciate tutte le dita in modo estremamente preciso, permettendoci di agire in modo ancora più elaborato.
Arriviamo a quello che è la pecca probabilmente più grave di Boneworks: il sistema di salvataggio. Come anticipato, la progressione che scandisce le aree è molto vicina allo sparatutto old school di prima generazione, addirittura ricordando saghe storiche come Doom e Duke Nukem; proprio per la differenziazione dei livelli ed il passaggio volutamente inorganico tra gli stessi.
In questo caso, Boneworks si dimentica di venire incontro al giocatore e manca completamente di punti di salvataggio automatici o manuali all’interno dei livelli, che possono arrivare a durare anche più di un’ora. Inutile dire che in un titolo in realtà virtuale, anche piuttosto faticoso dal punto di vista fisico, non è carino costringere il giocatore ad arrivare al livello successivo prima di chiudere la partita, prendersi una pausa o passare ad altro.
È chiaro come Boneworks voglia essere volontariamente fastidioso in più di un’occasione, e il più delle volte riesce ad esserlo lasciandoci più soddisfatti che frustrati, in questo caso invece perde completamente la rotta e restituisce solo un senso di grande amarezza.
Fortuna vuole che l’ultima fatica sviluppata da Stress Level Zero sia un trionfo sotto quasi tutti i punti di vista, ed è così palese che anche i suoi evidenti ed innegabili difetti passano serenamente in secondo piano.
Boneworks è un viaggio surreale che riesce a mettere insieme alcuni grandi capolavori del passato e delle meccaniche possibili soltanto con le tecnologie di nuovissima generazione, dando vita ad un’opera tanto straordinaria quanto difficile. È senza dubbio un titolo non adatto a tutti i palati, soprattutto ai neofiti della VR, che troveranno qui molto più motion sickness rispetto ai titoli più puliti ed eleganti di Oculus Rift o Playstation VR. Tuttavia chi riuscirà ad affrontarlo ed arrivare alla sua conclusione rischierà seriamente di innamorarsi, ed iniziare di conseguenza a guardare con sospetto tutti gli altri, fino a quando qualcuno non sarà in grado di dimostrarci che anche i difetti di Boneworks possono essere superati.
Boneworks è disponibile dal 10 Dicembre 2019 al prezzo di 24,99€ su Steam, compatibile con Valve Index, HTC Vive, Oculus Rift e WMR.
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