Giocato su PSVR2
Dopo molti anni che gioco e scrivo di videogiochi ormai una cosa mi è chiara: Tetsuya Mizuguchi è quanto di più vicino a Re Mida esista nel mondo del gaming. Il brillante designer e producer giapponese non ha infatti soltanto dato vita ad alcune delle opere più importanti del linguaggio, ma ne ha anche accompagnate molte altre, senza riscattarne la paternità del concept. Humanity, nato dalla mente di Yugo Nakamura, è una di queste opere, e non tradisce decisamente il nome di quel grande artista sopracitato, da sempre sinonimo di qualità.
Descrivere un titolo come Humanity è complicato. Non perché il concept in sé sia difficile da descrivere a parole, quanto perché quello che racconta – sia attraverso la sua narrativa che attraverso il gameplay – è così profondo e stratificato che forse servirebbe più una tesi, che una semplice recensione. Vista da lontano, in superficie, l’opera di Tha ed Enhance è un puzzle game che ricorda Lemmings, ma più spirituale e sotto allucinogeni, in cui guidare un’infinita schiera di esseri umani verso un luogo specifico della mappa. Lo dovremo fare nei panni di un cane, che ha la possibilità di impartire degli ordini a questo “flusso”, posizionando a terra dei comandi come salti e direzioni, raccogliendo stradafacendo dei giganti dorati alla Doshin the Giant che si riveleranno necessari al completamento dei singoli atti.
Sono infatti presenti ben novanta livelli, suddivisi in una decina di capitoli, che vanno a rimescolare costantemente le carte del design, a imporre limiti, a sbloccare le possibilità. Suggerirvi anche solo la metà di quello che offre Humanity sul fronte della pura invenzione ludica sarebbe come rovinarvi un viaggio straordinario, la cui forza sta anche nel senso di scoperta. E non solo, perché – nonostante la natura da puzzle game – Humanity offre anche una narrativa minimale, affascinante e complessa, che affronta la genesi dell’essere umano, le sue forze e le sue debolezze, il rapporto con sé e con Dio, e un sacco di altri temi generalmente poco esplorati dal gaming contemporaneo. Humanity è davvero sorprendente su tutti i fronti, ma quello che fa meglio – non a caso – è proprio il lavoro sui puzzle e la loro varietà.
Vi ho parlato spesso di quanto sia difficile bilanciare un puzzle game, soprattutto in realtà virtuale, e Humanity riesce a far bene anche qui, con qualche piccola riserva. Gli enigmi del titolo diretto da Nakamura sono brillanti: sempre stimolanti ma mai banali, comprensibili ma mai frustranti. Mi è capitato di bloccarmi su un livello pensando fosse impossibile, per poi tornarci il giorno dopo a mente lucida e risolverlo al primo tentativo. È sinonimo di un puzzle design che funziona a orologeria, e che raramente propone soluzioni troppo intricate, che rischiano di farci perdere interesse. Ma anche se fosse, attraverso una funzione sbloccabile con PlayStation Plus Extra e Premium, è possibile sbirciare dei video soluzione integrati nei singoli livelli, che tuttavia non ci spiegano come raccogliere i giganti, e che andranno a “macchiare” in qualche modo le nostre statistiche.
Quasi inutile specificare che il comparto artistico è qui impressionante, con questi “stormi” di persone che si muovono con una grazia quasi commovente, e una colonna sonora impressionante e memorabile, nei suoi improbabili slanci sperimentali. È tutto così bello che soltanto una cosa non funziona esattamente come avrei voluto, e – ahimè – sto parlando dell’integrazione con la realtà virtuale. Partiamo da una premessa fondamentale: Humanity è un titolo che è possibile giocare in flat o in realtà virtuale, senza sostanziali differenze. Non fraintendetemi: Humanity in VR è meraviglioso, e vi immerge ancora di più nel suo immaginario splendido attraverso la sola forza del linguaggio, ma non è stato evidentemente pensato a priori per una fruizione di questo tipo. Dico questo perché i PS VR2 Sense Controller non saranno né visualizzati in game, e né verranno sfruttati nella loro lettura dello spazio circostante, riducendosi a un mero e semplice pad, da utilizzare per muovere il nostro alter-ego attraverso la levetta del joypad. Ed è un peccato, perché le soluzioni, anche di interazione, potevano essere davvero infinite, soprattutto in un prodotto come questo, che fa dell’innovazione e della sperimentazione il suo più grande motivo di orgoglio.
Il problema è anche un altro. In Humanity, oltre ai livelli della campagna, sarà possibile anche creare le proprie mappe e giocare quelle degli altri giocatori online che le hanno condivise. Peccato che questo non si possa fare in realtà virtuale. O meglio, è possibile giocare i livelli della community, ma non è possibile creare i mondi. E questo è particolarmente scandaloso, visto che il level editing, in realtà virtuale, è notoriamente molto più immediato e profondo della sua controparte in flat, attraverso un joypad tradizionale.
Ahimè, Humanity non poteva fare tutto alla perfezione, e dinanzi a un videogioco eccezionale, che vanta oltretutto la traduzione completa in lingua italiana, e una longevità che supera serenamente le quindici ore non posso – a prescindere da tutto – che dire chapeau.
Humanity è un puzzle game brillante, originale, sorprendente e addirittura emozionante. È un videogioco che parla di tante cose, sia attraverso i suoi elementi ludici che attraverso quelli narrativi, e che risulta un’opera meravigliosa sia in flat che in realtà virtuale, nonostante qualche riserva. È un titolo che chi ama i puzzle game dovrebbe assolutamente avere in libreria, e che potrebbe addirittura far scoprire o rivalutare un intero genere a chi invece non mastica tutti i giorni un certo tipo di design. È, come sempre con Mizuguchi, un prodotto prezioso, importante, indimenticabile, l’ennesimo grande videogioco che ci ha offerto la realtà virtuale.
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