Meta Quest Pro è un visore con alcune delle tecnologie più all’avanguarda di tutto il mercato, propone un’inedita integrazione di eye e face tracking e presenta un form factor che fino a oggi nessun visore aveva ancora azzardato. Eppure, il nuovo HMD per realtà virtuale di meta, presentato come punta di diamante del mercato professionale, è anche un headset da quasi duemila euro, che sotto alcuni aspetti funziona peggio del suo collega da mille e duecento euro in meno, e di cui l’utilizzo effettivo non è ancora oggi così chiaro.
Diciamolo subito: Meta Quest Pro è sempre stato spacciato come visore indirizzato a chi la realtà virtuale la usa per lavoro. Il visore Pro di Meta non è infatti il Quest 3, o l’eventuale headset che andrà a sostituire il visore consumer per eccellenza e che ha come focus principale la fruizione di videogiochi e contenuti multimediali. C’è chi ci ha sperato fino all’ultimo, chi era convinto che, anche nel contesto del gaming, Quest Pro avrebbe avuto qualcosa da dire; e invece, dopo qualche giorno intensivo di utilizzo, posso assicurarvi che – a oggi – non è così.
A livello hardware, Quest Pro è una vera e propria bomba rispetto al resto del mercato. Il processore è ancora lo Snapdragon XR2, in questo caso, però, la versione plus, che monta 12Gb di ram, rispetto ai 6 di Meta Quest 2. Ma non solo, perché nonostante la risoluzione rimanga la medesima del precedente headset, ovvero 1920 x1800, il sistema d’illuminazione del pannello permette una lettura dei colori e dei contrasti estremamente più fedele al materiale di partenza. Piccole migliorie a una prima occhiata, che sprigionano però un rapporto con l’effettivo risultato davvero eccezionale.
Il punto forte di Quest Pro è però un altro: la nuova tecnologia di riconoscimento di occhi, volto e ambiente circostante. Per quanto riguarda il primo, Quest Pro monta dei sensori eye-tracking fenomenali, che permettono al visore di leggere la direzione vostra pupilla, e dando quindi la possibilità sia agli sviluppatori di agire su determinati parametri, sia all’utente di replicare attraverso il proprio avatar la direzione del proprio sguardo. Sempre a proposito di replica rispetto al proprio alter-ego digitale, i nuovi sensori di face tracking permettono invece di leggere l’espressione e i movimenti del proprio volto, assottigliando ancora di più la distanza tra persona e avatar dentro ai software sociali, e dentro aquelli legati al mondo del lavoro.
Per quanto riguarda la lettura del proprio spazio di gioco, e quindi l’integrazione con la realtà aumentata, ci pensa il nuovo passthrough a colori, che ci permettere di guardare il mondo circostante come mai prima d’ora, attraverso una definizione migliorata rispetto al bianco e nero un po’ sgranato di Quest 2.
Anche i controller risultano più tecnologici, e potranno addirittura essere acquistati a parte per essere utilizzati con il proprio Quest 2, poiché montano una tecnologia differente rispetto alla precedente iterazione. In questo caso abbiamo tre camere sui controller, che ci permetteranno di tracciare – in un futuro prossimo – anche il resto del corpo; e a cui potremo anche agganciare delle speciali punte per utilizzarli come veri e propri pennini digitali, per disegnare o segnarci appunti.
Su carta è tutto molto bello, ma all’atto pratico? Partiamo dal presupposto che – a oggi – non esiste un mercato del lavoro che sfrutta ancora al cento per cento le potenzialità della realtà virtuale. Certo, ci sono contesti che hanno integrato il suo utilizzo e che continuano a farlo, come quello immobiliare, medico e artistico, ma siamo ancora lontani dalla visione di Zuckerberg del Metaverso. Questo è normale: ci vorranno anni, forse decenni, prima che quello che abbiamo visto durante gli ultimi due Meta Connect prenda piede esattamente come nella sua visione originale; il problema è che oggi tutto questo esiste davvero in minima parte. Vien da sé che l’utilizzo che viene fatto oggi della realtà virtuale è principalmente legato a gaming, social e intrattenimento, ed è proprio su questi fronti che Meta Quest Pro non risulta in alcun modo un valore aggiunto, se non per una piccola manciata di elementi.
Il primo è che la qualità del pannello rende i giochi nativi, oltre che quelli utilizzati via PCVR, davvero eccezionali. I neri sono più profondi, i colori più vivi, l’impatto quasi più definito. Giocare attraverso il pannello di Quest Pro è una vera e propria gioia per gli occhi, che non raggiunge i livelli dei migliori pannelli OLED, ma che risulta una buona imitazione rispetto a quello che può fare oggi l’LCD. Peccato che, già qui, troviamo un grosso problema.
Il form factor di Quest Pro è elegante e ben bilanciato, ma non essendo pensato per il gaming lascia scoperti platealmente lati, e parte inferiore. Se per quanto riguarda i lati è possibile agganciare due coperture presenti nella confezione, la parte inferiore rimane scoperta di default, se non acquistando un accessorio a parte, che verrà oltretutto spedito da metà novembre in poi. Per un visore che costa quasi duemila euro, non avere la possibilità di rimanere immersi dentro al nostro spazio digitale è davvero incomprensibile.
L’eye tracking poi, nell’unico gioco che lo sfrutta, è un qualcosa di realmente sorprendere. Red Matter 2, che a oggi è l’unico prodotto della libreria Meta ad aver proposto un aggiornamento che ne fa uso, va sostanzialmente ad aumentare la risoluzione del punto verso cui state guardando, andando a renderizzare a una risoluzione inferiore tutto il resto. Vi assicuro che il risultato è davvero spaziale, e dà la possibilità agli studi di sviluppo di ottimizzare le risorse come mai era successo prima, e come sarà con quel Playstation VR2 che arriverà tra qualche mese sugli scaffali di tutto il mondo.
Eye tracking che risulta comunque meno utile del previsto nella home e nei software di lavoro, così come il famigerato face tracking. Quest’ultimo in particolare, che doveva fare miracoli secondo l’ultima conferenza Meta, non è oggi niente più che un gimmick, che rende un filo più immersive le sessioni di Horizon Workrooms, ma che non risulta ancora integrata con nessun altro prodotto dello store. Probabilmente quando VRChat e simili inizieranno a inserire la possibilità di abilitare face ed eye tracking le cose cambieranno, ma ahimè – a oggi – non c’è molto da vedere in proposito.
Il passthrough a colori è poi un altro espediente non così brillante. Presentato come la vera svolta nel lavoro in AR con l’headset, la visione attraverso le camere del Quest Pro non si avvicina ancora minimamente alla visione naturale che è possibile ottenere con un paio di occhiali che fanno lo stesso lavoro. L’immagine è sì a colori, ma ancora molto sgranata, necessita di un sacco di luce, e risulta infine davvero pesante da osservare per più di venti minuti di fila. In questo senso, anche i giochi e le esperienze AR che provano a sfruttare questo nuovo sistema, come Woorlds, I Expect You to Die: Home Sweet Home o Gravity Lab fanno molta fatica a posizionare gli elementi con cura nel nostro spazio di gioco, o a rendersi semplicemente esperienze piaevoli rispetto a una sana e rodata fruizione immersiva in full VR.
Parlando di tracking invece, le camere poste sui controller rendono il tracciamento molto più ampio rispetto a tutti i visori inside-out presenti sul mercato. Questo vuol dire che potrete finalmente giocare a biliardo senza perdere il tracciamento sulla mano che andrà a portare la stecca dietro alla vostra schiena. Il problema è che questo specifico sistema di tracciamento ha bisogno di molta più luce rispetto al precedente. Con tutti i visori con sistema inside-out che ho usato a oggi ho sempre lavorato in una stanza con una luce blu non particolarmente forte, anche per non far entrare fasci troppo luminoso dalle fessure sul visore. In questo caso, provando il medesimo setup, i controller tendono a perdere il tracciamento e a bloccarsi in più di un’occasione. Niente che probabilmente non si possa risolvere con un aggiornamento firmware, ma il problema, a oggi, c’è.
Discutibile anche la base di ricarica, concettualmente comoda e immediata, si dimostra in realtà pensata maluccio. Alla base, collegata via usb-c a una presa, si agganciano sia visore che controller, con il grosso problema che sarà davvero difficile beccare al primo, o anche al secondo o alterzo colpo, gli agganci delle periferiche. Davvero un sistema pensato male, nonostante l’idea di una charge station già presente nella scatola dell’headset sia un esempio da prendere per le future iterazioni.
Parlando di integrazione con il PC, Quest Pro – come d’altronde Quest 2 e Pico 4 – manca di un’entrata video, presente invece in Pico Neo 3 Link. Questo vuol dire che il visore potrà essere collegato al computer o via usb-c, oppure via air link in wireless, nelle medesime modalità di Quest 2. Per un visore che costa quel che costa la trovo una scelta, anche qui, assolutamente illogica, tuttalpiù che si parla di un visore pensato esplicitamente per il business. Questo ci porta alla fruizione di giochi PCVR. Da questo punto di vista, l’esperienza rispetto a Quest 2 è sostanzialmente la medesima, con un piccolo boost su una definizione che sembra più chiara, semplicemente a causa della miglior illuminazione del pannello, e nulla più.
Ben migliore l’esperienza con Horizon Workrooms, che vi permette di collegare il PC al vostro Quest, semplicemente per lavorare dentro ambienti virtuali più belli della vostra stanza, o aggiungendo degli schermi giganti dentro al vostro ambiente in AR. L’esperienza è mediamente buona, ma anche qui abbiamo qualche problema. Intanto le tastiere supportate sono ancora pochissime, per cui dovrete andare un po’ a sentimento quando si tratta di utilizzare la tastiera, a meno che non abbiate uno dei device disponibili. A oggi c’è poi ancora il problema legato ai monitor. Se alla vostra scheda video è collegato un solo monitor infatti, dentro a Workrooms potrete utilizzarne soltanto uno, e così via. Vien da sé che chi vorrà usare più monitor rispetto a quelli che ha collegati al proprio device dovrà comprare degli HDMI dummy che vanno a riempire le porte, facendo credere al software di avere dei monitor in più. Il problema non si pone su altri software concorrenti come Immersed, che installano invece dei driver proprietari che simulano la presenza di più schermi.
Da segnalare poi che, tornando a parlare di gaming, alcuni giochi presentano artefatti non presenti su Quest 2. Bonelab in standalone, ad esempio, ha qualche problema a gestire la texture del fuoco, mentre Wolfenstein Cyberpilot via PC presenta uno strano effetto di illuminazione sulle superfici. Tutti problemi risolvibili con un software update, ma che vale la pena segnalare. Inoltre, sia in standalone che via PC, le lenti presentano una strana distorsione sui bordi, a cui si può non far caso durante giochi con mappe contenute, ma che infastidiscono parecchio su produzioni con ambienti più estesi, com’è uno Skyrim VR.
Meta Quest Pro è grossomodo quello che ci era stato detto, e forse va bene così. Un visore pensato per un uso professionale e business che non restituisce niente di più a chi vuole semplicemente giocare in realtà virtuale, e che forse va anche a togliere qualcosa. Non avrebbe avuto senso lanciare sul mercato un visore da duemila euro che avrebbe reso scontenti i videogiocatori che non avrebbero potuto permetterselo; rimane da capire quanto senso abbia riempire una nicchia di mercato che invece, a sentimento, tanto grande non è. Per chi vuole giocare c’è poco da fare: tocca aspettare il tanto agognato Meta Quest 3, probabilmente in uscita intorno alla fine dell’anno prossimo.
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