Pixel Ripped 1989: recensione e video recensione

Uno dei primi ricordi della scuola primaria che conservo con grande dolcezza, è stato il giorno in cui un mio compagno di banco portò in classe il primo, indimenticabile, Gameboy. A casa, fino a quel momento, avevamo quelle console cinesi che ti rifilavano con gli abbonamenti enciclopedici, ma di lì a poco il Nintendo 64 avrebbe iniziato a fare coppia fissa con la nostra TV. Potete immaginare dunque il mio stupore nello scoprire il concetto di portabilità applicato al mio hobby preferito, osservando con infinito entusiasmo quel Super Mario Land che mi introdusse all’idraulico più famoso dei videogiochi. Di conseguenza iniziai un lungo periodo di pressione psicologica verso i miei genitori, che sfiancati da un’operazione di sfinimento andata stranamente a buon fine decisero di comprarmi quello splendido oggetto dalla brillante scocca grigia.

Pixel Ripped 1989 inizia grosso modo qui, con una bambina alle prese con il suo videogioco preferito sui banchi di scuola. Le premesse che aprono le danze sono quanto di più vicino si possa trovare nell’ambito della realtà virtuale per chi è nato dalla seconda metà degli anni ottanta all’inizio degli anni novanta, colpendovi dritto dritto nel punto in cui conservate la nostalgia.

La game director Ana Riberio ha voluto raccontare quel momento in cui l’amore per il linguaggio videoludico nasce e cresce, facendosi uno degli aspetti primari della nostra infanzia e abbracciando conseguentemente tutto ciò che ci circonda. Non a caso il limite tra realtà e finzione è messo costantemente in discussione, con un’impronta meta linguistica a volte un po’ compiaciuta ma tutto sommato funzionale e più apprezzabile di altri prodotti che tentano la stessa strada.

Come accennato in apertura, il titolo ci mette nei panni di una bimba di nome Dot, che attraverso un videogioco per una console portatile fittizia dovrà salvare il mondo da un super cattivo, intenzionato a varcare la soglia della finzione per distruggere il mondo. La narrativa che muove le redini di Pixel Ripped 1989 è genuinamente infantile, tanto che viene spontaneo paragonarla a quelle storie che da bambini ci si inventava negli stessi contesti e nelle stesse modalità. Chi afferma di non aver mai sognato di salvare il mondo grazie alla propria abilità nei videogiochi sa di mentire, o non è stato cresciuto dal medium in questione; certo è che il me stesso bambino a inizio anni novanta era plausibilmente come era Ana e come erano migliaia e migliaia di bambini in tutto il mondo che si affacciavano per le prime volte al videogioco.

Nei panni di Dot supereremo quindi i diversi livelli che compongono l’avventura, distraendo la professoressa con la nostra cerbottana, mentre tenterà in ogni modo di ostacolare il nostro obiettivo. In alcuni momenti il videogioco nel videogioco supererà le barriere che lo separano dalla realtà di Dot, ed è qui che Pixel Ripped 1989 si fa ancora più interessante. Se nelle prime battute di gioco dovremo superare i livelli all’interno della console portatile, andando avanti i personaggi in-game andranno guidati tra i banchi della classe, usando il simil gameboy come pistola laser o la cerbottana per liberare il percorso alla nostra controparte a 8 bit. Ogni momento in Pixel Ripped 1989 è pensato per spezzare la monotonia, introdurre meccaniche nuove, stupire il giocatore. Non sempre ci riesce, spesso a causa di un autocompiacimento eccessivo e di un impianto tecnico un po’ sottotono, ma quando le cose funzionano il livello raggiunto dall’insieme degli elementi è quasi memorabile.

Sul fronte artistico il lavoro svolto dai ragazzi di ARVORE è ottimo: l’immaginario è nostalgico e coloratissimo, il mix con l’8 bit è splendido e le musiche risultano sempre di ottima fattura. Sfortunatamente la messa in pratica non è invece delle migliori. Se gli ambienti risultano un po’ piatti ma tutto sommato dignitosi, i personaggi 3D che popolano il mondo di gioco risultano abbastanza bruttini, con una composizione poligonale povera e approssimativa. Le proporzioni risultano decisamente inadeguate anche se – si spera – volute e le animazioni tridimensionali deludono su tutti i fronti. Duck Season, meraviglioso titolo di Stress Level Zero dell’anno scorso, riesce a fare quest’esatta operazione nostalgia con molta più cura nell’impianto formale.

Fortunatamente un buon gameplay e un buon lavoro sull’art direction riescono a risollevare la discutibile realizzazione tecnica, ma è un peccato che anche da questo punto di vista non si sia dato il massimo.

Tra una folta sfilza di citazioni, un immaginario che fa tornare bambini e un livello di difficoltà che si fa sempre più impegnativo e soddisfacente, Pixel Ripped 1989 riesce – nelle sue due ore di gioco – a regalare un tipo di esperienza ancora inedita nell’ambito della realtà virtuale. C’è chi ancora non ci crede, ma quando dietro ad un videogioco c’è una visione d’insieme autoriale che tenta di smuovere delle corde emotive attraverso gli strumenti dati dal game design, il risultato è su un altro pianeta rispetto al classico sparatutto a orde che il mercato VR tenta di rifilarci ogni settimana. Pixel Ripped 1989 sfrutta in modo intelligente tutti i limiti degli attuali visori per realtà virtuale, ha qualcosa di importante da dire e riesce a divertire con un gioco a 8 bit all’interno di un gioco in realtà virtuale. Ognuno valuterà secondo i propri standard e le proprie memorie l’efficacia della trovata, ma il fascino del titolo è innegabile e difficilmente deluderà una volta arrivati ai titoli di coda.

Pixel Ripped 1989 è disponibile dal 31 Luglio 2018 su Playstation Store, Steam e Oculus Store, compatibile com HTC Vive, Oculus Rift, WMR e PSVR.






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Alessandro Redaelli

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