Nel 1969 a Kunsan, in Corea del Sud, fu creata ex-novo una cittadina, denominata American Town, che aveva come unico scopo quello di soddisfare i bisogni dei soldati americani di stanza nella vicina base: intrattenimento, cibo, sesso. Il governo reclutò donne provenienti da tutto il paese per “popolare” American Town e le lasciò alla mercé dei militari per decenni – ovvero fino allo smantellamento della cittadina ordinato nel 2022.
Ora, nel 2023, i bar, i locali notturni, i karaoke e le abitazioni sono in procinto di essere demoliti. Le pareti dall’intonaco scrostato, le vetrine ingiallite e i pavimenti coperti di ghiaia e detriti circondano lo spettatore, catapultato nel mezzo di una città fantasma esplorata dalla statiche inquadrature a 360° della regista Gina Kim.
Le attività del passato, concluse, ma impossibili da cancellare, echeggiano all’interno dei locali deserti tramite una colonna sonora fatta di sound effects, musica e brevi scene recitate.
Tutto è immobile nella American Town catturata da Gina Kim – tranne una solitaria figura umana, che appare unicamente all’interno degli specchi: una “US military comfort woman” (così venivano definite le donne che offrivano i loro servizi ai soldati americani) che vive davanti ai nostri occhi una giornata come tante.
Si tratta di un espediente moderatamente intrigante, che il corto (della durata di circa 15 minuti) utilizza con discreta efficacia per evocare un passato nascosto e per certi versi vergognoso. È un espediente che viene meno in due scene: una, quella finale, durante la quale dovremmo trovarci in rotta di collisione con la vita della protagonista – un momento che, purtroppo, non riesce a suscitare grandi emozioni; e un’altra a metà del film, che arriva senza una giustificazione di sorta e appare semplicemente fuori linguaggio.
Il corto si conclude con un paio di paragrafi testuali in cui si spiega che la vicenda di American Town è ora sotto esame da parte della Corte Suprema coreana e che le donne coinvolte attendono di ottenere giustizia: è purtroppo la parte più interessante del film, che attraverso le sue immagini non riesce a creare una connessione emotiva con l’argomento che tratta, ma che perlomeno riesce a gettare luce su una pagina poco conosciuta della storia recente della Corea del Sud.
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