Ogni anno a Venice Immersive c’è almeno un’installazione anacronistica e superficiale che sembra uscita dagli anni novanta. Quest’anno è toccato a Peupler, di Maya Mouawad e Cyril Laurier: una stanza con un albero, lucine e proiezioni, come la immaginerebbe uno studente di new media al primo lavoro su commissione.
È un’installazione che ha il compito di rappresentare “uno spazio il cui riconoscimento è a volte confiscato dalla tecnologia”, restituendo a chi ne fruisce il punto di vista di un albero. Ora, non so voi, ma il punto di vista di un albero sull’essere umano e sull’avanzamento tecnologico è probabilmente l’ultima cosa che mi interessa sentire. Parliamo della solita opera pretenziosa e sciocchina, che non ha niente da dire se non la necessità di urlare più forte degli altri un’urgenza fasulla e artificiosa, figlia di un certo contesto festivaliero, che gradirei veder sparire nel minor tempo possibile.
Lo sforzo tecnologico è comunque più che discreto, e la rappresentazione particellare della propria presenza sulle pareti della stanza è sufficientemente affascinante, ma Peupler è un’installazione che vedrei bene soltanto in un contesto come può essere uno showroom di Gucci, e non dentro a un festival di cinema.
Cerchiamo di staccarci dall’idea di opera che ci hanno imposto i salotti borghesi alla fine del secolo scorso, e iniziamo a dar spazio soltanto a chi ha sinceramente la necessità di raccontare qualcosa. Vi prego.
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