Okawari è un’esperienza bizzarra. Da una parte installazione semi-permanente, possibile soltanto nel contesto di un festival o di una mostra; dall’altra esperienza multigiocatore in realtà virtuale, fruibile completamente attraverso un caschetto standalone.
L’idea è semplice: a gruppi di quattro utenti, si viene accolti all’interno della stilizzazione di un sushi bar giapponese, e accomodati ognuno al proprio tavolo. Con un headset sul volto, ogni utente si ritrova nella stessa location fisica che sta vivendo anche virtuamente, con tanto di tavolo su cui appoggiare le braccia, e seggiolino su cui si è seduti; con alcuni elementi aggiuntivi, che potrebbero in un certo senso rimandare a un discorso meta-linguistico più vicino alla realtà aumentata, che alla realtà virtuale.
Gli utenti sono quinti portati a ordinare da un tablet fittizio le pietanze disponibili, andando a scontrarsi attraverso una sfida apparentemente futile, che sfocerà infine in un discorso ben più ampio. Proprio durante le ultime fasi del gioco, il ristorante inizerà a crollare, svelando finalmente la vera natura dell’esperienza firmata da Landia Egal e Amaury La Burthe.
Senza andare a raccontarvi il finale e le sue inaspettate scelte multiple, Okawari è un’opera che parla di sprechi, di ambiente, di cucina consapevole.
È un opera che, come molte altre nello stesso contesto, cerca di educare lo spettatore attraverso la gamification, attraverso quelle azioni videoludiche che diamo oramai per scontato. Quello che fa Okawari è un’operazione lodevole, arricchita anche da un debriefing in location che tenta di aprire gli occhi degli utenti in maniera un po’ scolastica, ma comunque sincera.
Quello che manca, forse, è un lavoro più raffinato sul game design, per cui sarebbe arrivato – di conseguenza – anche più forte il messaggio. Così, sembra che Landia Egal e Amaury La Burthe, mossi oggettivamente dalle migliori intenzioni, abbiano voluto dare più spazio al tema che all’opera in sé, vanificando un po’ un’operazione potenzialmente molto forte, e tecnicamente molto complicata.
Un’esperienza da provare, che risulta però un po’ troppo didascalica e autocompiaciuta per restituire l’impatto che i suoi autori vorrebbero.
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