In una delle sue standup comedy più note, David Cross diceva una cosa interessante, ovvero che – parafrasando – sparare con un’arma da fuoco è oggettivamente divertente, ma il fatto che negli Stati Uniti alle armi ci possano accedere tutti, rende l’oggetto in sé oggettivamente pericoloso. Può sembrare una lettura semplicistica, ma in realtà non lo è. Sparare è divertente: nei videogiochi, con le armi da softair, o addirittura con le armi vere, dentro a luoghi sicuri, attrezzati e specializzati. Tuttavia, inutile girarci intorno, la funzione principale di un’arma da fuoco è quella di uccidere o ferire, e intorno a questo gli Stati Uniti ci hanno costruito un impero economico, dal quale sembra assolutamente impensabile allontanarsi. Eppure, nonostante siamo ben consci che questi oggetti servano ad uccidere, nonostante letteralmente ogni giorno spunti fuori una strage dovuta anche alla loro liberalizzazione e nonostante nessuno – credo – vorrebbe mai trovarsene una di fronte, ne siamo profondamente affascinati. Chiaramente parlo per me, ma attraverso la cultura popolare l’arma da fuoco, un po’ come un sacco di altre cose, ha acquisito nel tempo un significato altro, quasi ingenuamente romantico, e legato più agli immaginari, che alla realtà. Ahimè, con la realtà dobbiamo però farci i conti, ed è questo il motivo per cui sto scrivendo questo pezzo.
Partiamo dal principio: qualche giorno fa, approfittando dei saldi di Steam, ho comprato Blood Trail. Per chi non lo conoscesse, Blood Trail è un videogioco in realtà virtuale per PC che vi mette nei panni di un assassino, che deve fondamentalmente trucidare decine e decine di persone, e che il gioco giustifica indicando tutti i nemici come cultisti fuori di testa e assetati di sangue. Ho provato più volte a chiedere agli sviluppatori di mandarmelo, ma non ho mai ricevuto una risposta. Ora, può anche essere che le mie mail si siano perse nell’etere, ma, col senno di poi, è più facile che il team abbia un po’ la coda di paglia rispetto ai contenuti che propone al suo pubblico.
In ogni caso l’idea è semplice: entra in un’arena e ammazza tutti, fino a quando non ti sei stancato e puoi chiudere il gioco. Per ora nessuna storia e nessuna progressione, semplicemente l’atto di uccidere, sublimato da una maniacale cura per il dettaglio del macabro.
E già qui, si pone il primo problema. Quanto può spingersi oltre la rappresentazione della violenza fine a sé stessa, soprattutto in realtà virtuale? Ora, la violenza è sempre esistita e sempre esisterà, ed è fondamentale rappresentarla nell’arte per esorcizzarla, ridicolizzarla, o discuterne. Parto dal presupposto che le polemiche su Quentin Tarantino e simili siano superate, e che abbiamo imparato ad accettare – come società – anche il cinema e il videogioco di stampo più marcatamente splatter. Di fatto, negli ultimi vent’anni film come Final Destination e Saw, per quanto di stampo puramente pop, hanno definitivamente concluso il percorso che ha portato all’accettazione di un certo tipo di sensibilità nell’intrattenimento, purché ci sia un discorso, o purché si acceleri sul fronte del grottesco.
Personalmente, poi, amo l’horror in tutte le sue forme, comprese quelle più carnali e violente. Mi diverte, mi appassiona; forse, esorcizza qualcosa dentro di me che, in fin dei conti, mi restituisce una certa soddisfazione personale, per quanto infantile possa essere. Che sia perché sono cresciuto con un certo tipo di prodotti d’intrattenimento? Può essere, ma non ci vedo – a una prima lettura – decisamente niente di male.
E allora perché Blood Trail mi ha dato da pensare? Per tre ragioni molto specifiche, che voglio discutere soprattutto con voi.
La prima è che Blood Trail è un videogioco in realtà virtuale. La VR è nata relativamente da poco, non abbiamo un benchmark per dire cosa si può fare e cosa non si può fare, ed è quindi sempre giusto sperimentare col mezzo. Tuttavia, quando spariamo a una persona in realtà virtuale lo stiamo facendo con le nostre mani, attraverso il nostro sguardo: letteralmente in prima persona. Eppure, lo si può fare con consapevolezza. Anche qui, se accompagnati da una storia – e quindi immedesimandosi in un racconto – la violenza assume una connotazione totalmente diversa, e giustificata dalle necessità narrative. Oppure se esagera, presentandoci una violenza grottesca come quella di Gorn, in cui dobbiamo uccidere omoni pompati super deformed che assomigliano più a marionette che ad essere umani, il divertissement è chiaro e consapevole, e non costituisce problemi morali. Discutibile, come vi ho già detto molte volte, il caso di Blade & Sorcery. Blade & Sorcery è fondamentalmente come Blood Trail, ma ambientato in una sorta di medioevo fantasy, e basato esclusivamente sull’utilizzo delle armi bianche. Anche lì ho sempre nutrito dei dubbi, ma la differenza è che il contesto è così lontano dal nostro che, forse, fa in qualche modo parte della categoria sopracitata.
Questo ci porta tuttavia alla seconda motivazione: in Blood Trail non siamo nel medioevo. Ci muoviamo in una serie di ambientazioni che sembrano molto vicine alle realtà più povere degli Stati Uniti, uccidiamo attraverso le armi con cui vengono compiute le stragi, e gli effetti delle stesse cercano un realismo ben più che simulato. Con un colpo di fucile a pompa in faccia, la testa del personaggio di fronte a noi si aprirà in due, con una coltellata nel collo gli occhi dell’aggredito inizieranno a sanguinare, fino a spegnersi definitivamente. Con un colpo alla gamba, ancora, il cultista di turno cadrà a terra senza la possibilità di muoversi, implorando pietà al nostro alter-ego. Raccontato così sembra terribile, ma vi assicuro che a farlo è ancora peggio.
Il terzo motivo, che ho scoperto soltanto dopo aver giocato al gioco, è che l’anno scorso un ragazzino di sedici anni ha sparato in faccia con un fucile a pompa a un suo amico di quindici. Cosa c’entra, direte voi? Ecco, Jacob Talbot-Lummis, ovvero l’aggressore, era un grande fan di Blood Trail, e pare ci giocasse con una certa insistenza fin dalla sua uscita. Ora, è facile fare parallelismi con gli eventi di Columbine, e all’attacco che è stato fatto a Doom ai tempi, poiché era semplicemente installato sul computer dei ragazzi che hanno compiuto quella strage. Oggi siamo ben consci del fatto che il problema di Eric David Harris e Dylan Benne Klebold prescindesse totalmente dalla loro passione per gli FPS violenti, e noi stessi ci arrabbiamo sempre come matti quando, durante un qualunque programma TV generalista, si parla di violenza e videogiochi. Eppure, ai miei occhi, un videogioco in realtà virtuale non è la stessa cosa. Non voglio assolutamente dire che Blood Trail abbia incitato le violenze perpetuate dal sedicenne inglese nei confronti della vittima, ma se avesse in qualche modo normalizzato un certo tipo di violenza? La sto sparando grossa, e vi prego leggete la frase nel contesto in cui la sto dicendo, ma anche a causa di questo parallelismo, forse è il caso di iniziare a porsi qualche domanda in più.
Comunque, manco a dirlo, Blood Trail è tutt’ora uno dei giochi VR più venduti su Steam, accompagnato chiaramente da Blade & Sorcery e Gorn. Se vende, evidentemente, c’è la necessità di un prodotto così, ma perché? Il perché ve lo dico io. Ho giocato a Blood Trail per circa un’ora, continuando a pormi domande etiche e filosofiche sul prodotto. Sarà giusto mettere in commercio una cosa del genere? Che effetti può avere una realtà virtuale di questo tipo sul lungo periodo? E soprattutto: queste vibes alt-right le percepisco solo io? Ero confuso, ma nonostante l’orrore per quello che stavo facendo ho dovuto ammettere a me stesso una cosa: mi stavo divertendo. Eh sì, amici e amiche, l’ora che ho passato in compagnia di Blood Trail mi ha intrattenuto e mi ha fatto sfogare. Questo fa di me un matto? Può essere, ma sono sicuro che per il contesto in cui sono – e forse siamo – cresciuti, la violenza la si esorcizza anche con la violenza. È il motivo per cui esistono le rage room, il motivo per cui se c’è un incidente ci fermiamo a guardare, il motivo per cui non riusciamo a distogliere lo sguardo dal macabro. In tutte queste situazioni non c’è un elemento narrativo a giustificare l’atto: è semplicemente attrazione per la violenza, che diventa astratta, e che paradossalmente ci allontana dalla stessa.
Il vero discorso è quindi: la violenza fine a sé stessa, anche se ricercata attraverso il realismo più puro, può essere più utile che dannosa? Mi sono chiesto questa cosa un sacco di volte, soprattutto riguardo alla pornografia, che essendo l’emblema della gratuità, è forse anche linguaggio più onesto con il quale confrontare il discorso. Come tutti sappiamo, la pornografia è murata di roba borderline: non solo piena di violenza nelle sue forme più tradizionali, ma che vive anche di sotto-generi che se traslati nel mondo reale e senza la dimensione del kink, sarebbero chiaramente inaccettabili. Dal Ryona al Loli, dal Furry fino allo Snuff simulato, al Vore, al Guro, e tutta questa roba qui che fa numeri giganteschi, ma che nessuno ammette di guardare. Sicuramente c’è più gente al mondo che su Pornhub cerca milf tettona italiana che il disegno di un pony con un pene gigantesco che viene mangiato da un serpente, ma anche questo fa parte degli esseri umani, e la sua funzione è – forse – proprio quella di esorcizzare determinate desideri inconsci che rimarrebbero altrimenti inespressi.
Il che mi porta a un paragone scontato: la rappresentazione della violenza fine a sé stessa è come la pornografia, aiuta a soddisfare in quel preciso momento un bisogno, che altrimenti rimarrebbe insoddisfatto. Non voglio necessariamente dire che senza la risoluzione di quel bisogno si rischia che lo stesso debba essere ricercato nel mondo reale, ma è quanto di più vicino a un discorso logico ho trovato ragionando per anni su questo argomento. Ci tengo a precisare che ci ho ragionato, chiaramente, da utente, se vogliamo da “autore”, ma sicuramente non da ricercatore, e quindi vi invito ancora una volta a prendere questo pezzo più come uno spunto per discutere insieme, che come la verità assoluta sull’argomento.
Dall’altra parte, chissà se la nostra “sete di violenza” e di pornografia non sia data dalla continua esposizione a determinati prodotti, fin da quando siamo bambini. Se non avessi visto un sacco di film horror e videogiochi violenti fin da quando ero piuttosto piccolo, oggi sarei la stessa persona? Oppure, se fossi entrato in contatto con certi prodotti, come suggerisce il rating dei prodotti, non avrei provato una certa fascinazione per la rappresentazione della violenza? Eppure ultimamente, pare che The Boys stia piacendo un po’ a tutti, ed è probabilmente la serie TV più violenta mai vista sul piccolo schermo. Ma, forse, anche quella contribuisce al discorso?
È anche vero che, spogliando la cultura da qualunque argomento potenzialmente problematico, rimarremmo con molta più fame di scoperta, e molti meno argomenti di cui discutere. È un discorso che vive di contraddizioni, a cui probabilmente non esiste una risposta univoca e corretta, ma che serve a farci ragionare sulla funzione stessa della rappresentazione, e sulle possibilità – positive o meno – della realtà virtuale.
Comunque, alla fine della fiera, di Blood Trail ho chiesto il rimborso. Mi ha divertito con qualche riserva, e mi ha permesso di elaborare dei ragionamenti ancora inespressi, ma non credo di averne più bisogno. Magari continuerò la mia vita serenamente, guardando costantemente con sospetto prodotti di questo tipo ogni qual volta si presenterà l’occasione; o forse domani mi sveglio, mi faccio un caffè, mi fumo una sigaretta e… sai di cosa avrei proprio voglia? Di una bella partita a Blood Trail, esattamente come così, di punto in bianco, ho voglia di farmi un giro su PornHub.
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